Uno dei tabù della Sinistra, che fa sì che, credo (ed in un certo senso temo, perché anch’io ho origini da quelle parti politiche), resterà alla, diciamo così, Opposizione (non che ci sia nessuno che si opponga davvero) fino al 2200, è il cosiddetto fascicolo “scioperi e cortei”. Sull’intestazione del suddetto fascicolo c’è scritto che gli scioperi sono sempre una cosa buona e giusta, e così i cortei, e guai a dire il contrario.
Corollario della precedente affermazione è che gli scioperi ed i cortei vanno sempre e comunque a danneggiare i “signori”, cioè quelli che non lavorano e che prendono i mezzi pubblici per farsi un giro della città indisturbati a scattare foto, senza mischiarsi col resto del mondo. E che chi non vede la giustezza e l’utilità di scioperi e cortei, è perché ha una scarsa coscienza politica, cioè in buona sostanza si disinteressa delle sorti del popolo lavoratore, e solo si cura del proprio “particulare”, come dalle parole del Guicciardini.
È chiaro che quando l’attuale sindaco di Roma, per cui solo Dio sa se provo la minima simpatia, ha detto che i cortei andrebbero forse ridotti, forse spostati altrove, c’è stata la solita alzata di scudi degli intellettuali di sinistra (che, quando si tratta di recriminare e di denunciare, esistono ancora): io mi trovo tuttavia a capire quel che vuol dire Alemanno, avendo vissuto a Roma (posso dire purtroppo?) per tutta la durata dei miei studi universitari, ed avendoci lavorato per un certo tempo.
La facoltà d’Ingegneria a Roma è al centro, essendo, almeno nella sua parte primigenia, stata ricavata dal convento di San Pietro in Vincoli (insomma, porta a porta col Mosé di Michelangelo) in pratica è sulla direttrice di qualunque corteo stia recandosi verso le solite zone dove si organizzano i cortei. E non so quante volte, dovendo andare a lezione od anche a sostenere qualche esame, i Fori Imperiali piuttosto che via di San Gregorio oppure la zona di Santa Maria Maggiore erano bloccati per cortei, con striscioni, ecc. ecc.
Lo so benissimo che, nella concezione abbastanza diffusa di chi non ci vive, a Roma non si lavora mai, ed avremmo dovuto, anche noi studenti, unirci ad un corteo (qualunque corteo) e gridare e soffiare nei fischietti. È che io avrei voluto laurearmi, come poi ho fatto, e non passare la mia vita a percorrere su e giù i Fori Imperiali, cosa che sarebbe stata interessante se fossi stato un archeologo (nel qual caso però l’avere un fischietto in bocca sarebbe stato forse un po’ incongruo). Ma avevo preso un’altra facoltà, come dicevo.
Purtroppo, la realtà è che, grazie al modo con cui la città è organizzata, a Roma è già normalmente difficile fare ciò che altrove è più facile, tipo andare a lavorare o fare qualunque cosa dobbiate fare per le necessità di una giornata comune (questo i politici, tanto meno quelli di sinistra, non lo sanno, perché hanno le auto blu e tutto un apparato che impedisce loro di svolgere quell’attività evidentemente disdicevole che è fare una vita normale).
Insomma, c’è questo tabù: a Roma non ci si può mai lamentare di scioperi e cortei. Questo anche nella convinzione, tuttora diffusa, specie a sinistra, che ogni manifestazione sia latrice di istanze universali (la pace, la giustizia universale, la libertà per tutti, l’amore, ecc.): in verità la maggior parte dei cortei che ricordo riguardavano istanze particolari di categorie di lavoratori o di soggetti, per cui la mia impressione, sebbene a volte, o spesso, potessi sentirmi solidale con specifici problemi, era che la difesa del “particulare” era esercitata anche da chi stava in corteo. Noi, bloccati nel traffico o su mezzi pubblici invischiati nello stesso, o peggio ancora deviati in modo cervellotico e umorale, volevamo, né più né meno, proseguire le nostre attività (che queste poi fossero politicamente inaccettabili, è tutto da dimostrare…). In ogni modo, come Rubé nel capolavoro di Borgese, che tanto infastidì all’epoca i critici di certa parte politica, eravamo estranei al corteo, non per indifferenza al mondo ed ai suoi gravi problemi (non tutti tra di noi erano persone ciniche ed ignobili), ma semplicemente perché (orrore…) ciò che era importante per noi, in quel momento, era altro. E quindi pensavamo che, dal nostro punto di vista, quel corteo era solo una grandissima perdita di tempo.
Un discorso a parte meritano gli scioperi nei trasporti e le interruzioni dei pubblici servizi (occupazioni delle stazioni in primis): questi vengono tuttora fatti con l’orologio puntato sul 1919, un’epoca in cui, basta guardare qualche vecchia foto, i poveri andavano a piedi e quelli appena leggermente più benestanti prendevano il tram (perché c’era il fattorino, il biglietto si pagava, e salato, senz’ombra di tariffe agevolate). Nel 1919 o giù di lì, lo sciopero nei trasporti aveva un senso, eccome, nel momento in cui il manovratore del tram od il semplice operaio della manutenzione lavorava per offrire un servizio a persone che stavano più su di lui nella scala sociale, a volte di molto. E’ chiaro ed umano che gli scioperanti ambissero ad una ridistribuzione della ricchezza, nel momento in cui uno stipendio medio non consentiva loro nemmeno di mangiare decentemente fino a fine mese.
Ora, certi problemi economici possono essere rimasti, anche se penso che nel complesso le aziende dei trasporti paghino senz’altro meglio i loro dipendenti di quanto non facessero allora, ma il problema è un altro: che sui mezzi pubblici l’utente medio, e quindi quello danneggiato dallo sciopero, è tutt’altro che benestante; il prezzo del biglietto (ammettendo che tutti lo paghino) è politico, il che permette la fruizione del trasporto pubblico praticamente a quasi tutti (devo ammettere che purtroppo i disabili hanno ancora qualche problema, e si fa ancora troppo poco per questo: ma d’altro canto ho raramente visto una manifestazione per perorare l’abolizione delle barriere architettoniche, cui credo mi unirei senz’indugio).
Quindi si tratta pur sempre di una lotta di classe, ma non dei poveri contro i ricchi, ma dei poveri tra di loro, e con preferenza contro quelli ancora più poveri. Eppure, vedete i proclami esultanti dei sindacati, sempre più spesso smentiti dai fatti, sull’”adesione massiccia”: non mi sembra un brillante risultato per dei “progressisti” lasciare a piedi qualche migliaio di lavoratori a basso reddito, pensionati, immigrati, ecc., danneggiando specie chi abita all’estrema periferia e compie lunghi e spesso tortuosi percorsi per recarsi al lavoro. Ci sarà certo anche qualche persona benestante od addirittura ricca ed influente che ha lasciato a casa l’auto, ma chi viaggia sui mezzi pubblici a Roma negli ultimi anni si rende facilmente conto che non sembrano il modo di spostarsi prediletto da chi dispone di una grossa fortuna. Certo, ammettere che lo sciopero nei trasporti non abbia più senso, ed avrebbe molto più senso convocare soltanto delle riunioni ristrette delle dirigenze sindacali con la dirigenza ministeriale o dell’azienda, non è cosa che si può dire, specie a sinistra. Perché dove va a finire il “potere contrattuale” (cioè, in parole povere, quello di gettare la città nel caos)? Beh, si rassicurino: la mia impressione è che del caos cittadino a chi governa non interessi nulla o, se qualcuno preoccupato per il basso livello di retribuzione dei lavoratori c’è (e lo spero) non è che uno sciopero con corteo aumenti la loro preoccupazione (semmai fornisce scuse per non far nulla, perché appena c’è un minuscolo incidente al corteo, i giornali possono strillare all’irresponsabilità ed alla violenza: cosa che, se il corteo non ci fosse, non potrebbero fare). Inoltre, l’effetto dell’inconcludenza e del fastidio dei cortei sul cittadino medio (e, devo ammetterlo, spesso anche su di me) è quello di pensare che se questa è l’opposizione, ci terremo questo governo per secoli, qualunque azione nefasta metta in opera.
Concludo su di me: qualche settimana fa c’era il solito corteo, che aveva bloccato addirittura viale Aventino. Dovevo scendere da un autobus al Colosseo, e l’autista, incurante delle mie preghiere (ad un certo punto mi veniva quasi da piangere) mi ha detto che sarei potuto scendere a piazza Venezia. Non dovevo andare a piazza Venezia, ne faccio volentieri a meno, per via dell’agorafobia (eh sì, nella vita esiste anche questo, e mi sento di poter far outing anch’io, dopo oltre vent’anni di sofferenza silenziosa, vissuta nel disprezzo dei cosiddetti “normali”, specie a Roma), ma non c’è stato verso: specie, devo confessarlo, mi faceva impressione la faccia inerte dell’autista, per cui piazza Venezia o il Colosseo fosse la stessa cosa (per me, e per tanti come me, non lo è). La mia richiesta, quella che l’autista mi lasciasse scendere (e poteva farlo, avendo incontrato almeno dieci fermate Trambus lungo il percorso “sbagliato”), dal momento che deviava dal suo itinerario previsto (creandomi un’ansia non indifferente), era evidentemente irragionevole e penso che fosse politicamente scorretta. Un piccolo problema, in fondo, risolubile con qualche respiro profondo e un po’ di coraggio (che ci vuole per lavorare a Roma). Ma permettetemi di essere solidale e vicino ai tanti disabili, dei quali in fondo non si cura nessuno: credo che per loro, con questa mentalità prevalente (e qui non c’entra Destra o Sinistra) sia ancora molto dura.