Ho ricevuto proprio oggi in casella da un collega milanese una brochure che enfatizzava come non se ne potesse più della “renderizzazione” dell’architettura: cosa indica in pratica questo, diciamocelo, termine un po’ pesantuccio? Sapete bene quel che vuol dire quando vedete quei progetti moderni, dove invece di dare tanti dettagli tecnici, che sono suggestivi fino ad un certo punto di quale sarà l’aspetto finale, si fanno delle grandi simulazioni tridimensionali (sapete quelle con gli omini che camminano sparsamente, quasi con dispersione gaussiana, come in realtà nessuno cammina, perché, dati i rapporti tra di noi e le necessità della vita, si tende a stare ammassati piuttosto che con distribuzione uniforme): parlando di edifici ferroviari, ho visto per esempio dei render molto riusciti a Roma Tiburtina, a Bologna Centrale e a Salerno, tutte stazioni interessate a rinnovamenti profondi per via della realizzazione della rete dell’Alta Velocità.
La cosa bella dei render è, oltre al fatto di rappresentare gli omini, anche quella di avere altri elementi che non mancano mai: tanto verde e/o immense superfici vetrate e tanti volumi a sbalzo, di quelli che piacciono molto all’urbanista densificatore, sicché un palazzo di dieci piani con lo sbalzo dà un effetto paragonabile a quello di sei senza sbalzo, perché psicologicamente lo si vede più “mosso”. E’ vero che la qualità dell’architettura e dell’ambiente circostante ha influenza sulla nostra percezione delle dimensioni: parlando di Napoli, una cosa sono dieci piani di un palazzo grigio a Corso Lucci, strada, seppur abbastanza larga per gli standard napoletani, vicina alla Stazione Centrale e quindi ragionevolmente caotica, ed una sono dieci piani di un albergo superterrazzato a via Partenope fronte mare. Proprio per questo, i render non dicono granché di quel che vedremo, una volta che la stazione, o il centro direzionale, o la piazza ristrutturata sarà terminata, proprio perché i luoghi urbanistici, da subito, prendono il carattere dell’ambiente che hanno intorno, tanto è vero che non adeguarsi a questo può costare caro.
Mi spiego: parlando di stazioni ferroviarie, argomento che mi è caro da sempre, come (passatemi il paragone piuttosto scandaloso, specie in Italia) l’ “ermo colle” leopardiano, sia Napoli che Roma nel dopoguerra si sono dotate di nuove grandi stazioni di testa, in entrambi i casi arretrando il fronte della precedente stazione, allo scopo di allargare la piazza, per le accresciute necessità del traffico cittadino. Al di là delle apparenze, la scelta fatta è stata opposta: a Roma la stazione Termini, iniziata ancora durante il fascismo, decideva di prescindere del tutto dall’ambiente umbertino circostante, con un monumentalismo discutibile, ma anche di non trascurabile qualità (è curioso come cambino le cose: sono abbastanza grande da ricordarmi lo scetticismo, ai limiti del disprezzo, per le cosiddette “ali mazzoniane” di Termini, mentre ora i fianchi della stazione, specialmente quello lato via Giolitti, dove il distacco dall’edilizia circostante è ancora più stridente, sono considerati con un certo rispetto, forse per la metabolizzazione del percorso politico di Angiolo Mazzoni). Il principio, che potremmo dire dell’”emergenza architettonica”, cioè dell’edificio che si distacca dall’ambiente circostante, di Roma Termini fu applicato a un dipresso anche nel caso della stazione di Venezia Santa Lucia (ma d’altronde, cosa avreste voluto fare a Venezia? Difficile mimetizzare una stazione in una città d’acqua…). Questa è molto simile a Termini strutturalmente, benché notevolmente più piccola, essendo anch’essa stata progettata, almeno inizialmente, da Mazzoni, pur se anch’essa completata nel dopoguerra a parte la scalinata scenografica, che manca a Termini, e che offre la concettualmente necessaria (seppure oggi piuttosto scomoda) discontinuità tra la città di ferro e la città d’acqua.
Napoli Centrale è nata successivamente ed è stata inaugurata quasi un decennio dopo: qui la scelta è stata quella di tenere conto maggiormente dell’ambiente, ed in effetti, rispetto al bailamme di piazza Garibaldi, non è forse inappropriato dire che la stazione progettata da Pierluigi Nervi si mimetizza efficacemente, a cominciare dal tetto piatto e dalla struttura dell’atrio con frequenti linee oblique e pilastri ramificati. E’ la scelta seguita con molto maggior pregnanza e, diciamocelo, classicismo nella stazione fiorentina di Santa Maria Novella di Giovanni Michelucci, dove, essendo il contesto architettonico che l’attornia di molto maggior pregio che nel caso napoletano, l’esigenza di armonizzazione era assolutamente indiscutibile.
Questo fa capire perché l’architettura renderizzata non dà mai un’idea esatta della situazione che troveremo in pratica, anche se ovviamente piace molto agli architetti e designer (in media, ma non generalmente), perché laddove si rifiuta l’ambiente esterno (Roma Termini) si crea un’isola protetta che, se vuole resistere, vive del proprio isolamento rispetto all’ambiente circostante, mentre laddove si cerca di scendere a patti con esso (Napoli Centrale) certamente si offre minore “protezione”, ma d’altro canto non si creano eccessive cesure con la città. In entrambi i casi, il render non offre un’idea minimamente realistica di quel che accade nella vita di tutti i giorni all’architettura così faticosamente, o magari anche forzosamente, inserita nel tessuto cittadino. E’ all’incirca suggestivo della realtà come può esserlo Second Life rispetto a chi viva nel consueto caos di tutti i giorni.