Non leggo spesso il Venerdì di Repubblica. Non lo leggo spesso, perché non compro i giornali, come tanti: e non lo faccio perché quel che mi serve sapere lo trovo su Internet, magari sul sito di quello stesso giornale che avrei potuto comprare. Quindi lo leggo solo se lo trovo da qualche parte, o se lo compra qualche amico o familiare. Lo so lo so, che il grado di approfondimento del giornale cartaceo è differente, che qualche volta c’è qualche grossa firma che scrive con ben altra larghezza e completezza sul cartaceo che sul virtuale. Ma continuo a non comprare. Non perché i giornali siano cari: è che, per dirla semplicemente, ho altre priorità.
Così, è solo qualche tempo fa che mi sono imbattuto in un Venerdì di Repubblica dell’otto maggio scorso, che ho sfogliato qua e là: penso a volte (forse è un’idea un po’ malata, non so) che sapere come certe cose sono andate a finire aiuti la lettura, in certo senso rilassi: per esempio, leggere dei timori (o terrori?) per l’aviaria o per il contagio della mucca pazza agli umani, sapendo che poi la bolla si è più o meno sgonfiata, aiuta a prendere le distanze, a cambiare prospettiva. Certo, dovendo risalire nel tempo, è indubbiamente più interessante o storica una Domenica del Corriere del ’69 o giù di lì (non lo dico a caso: ricordo un’immagine che da bimbo mi terrorizzava, con la faccia tumefatta del milanista Combin dopo la battaglia, più che partita, con l’Estudiantes per la Coppa Intercontinentale) piuttosto che una di tre mesi fa: ma anche un Venerdì di Repubblica vecchio di qualche mese dice qualcosa.
Qui la copertina non terrorizza, sembra tranquilla, ma solo in apparenza, piuttosto si sofferma sui giovani che usano Internet, quello che fanno e quello che rischiano. A questo punto la data diventa importante, anzi fondamentale, siamo a maggio del 2009 e non del 1999… ma, come direbbero gli anglosassoni, here we go again. Parliamo di Internet e i suoi rischi (paura…).
E’ interessante che un giornale come Repubblica, più o meno progressista, uno dei pochi a discutere l’operato di quel signore sorridente in doppiopetto che vedete tanto spesso in TV, abbia questi timori: ho già detto, credo, e non mi ripeto, che io da Internet ho avuto soltanto vantaggi, amici conosciuti o ritrovati, lavori, contatti, ecc. Certo, un minimo di prudenza va utilizzata (ma anche nel rispondere alle inserzioni sui giornali, o no?): e vorrei notare che anche un oggetto utilissimo ed in apparenza inoffensivo come un cacciavite, se usato male, fa danni, figuriamoci un mezzo come Internet che ha potenzialità enormemente più grandi. I giornali non fanno danni?
Ma non volevo lanciarmi in una crociata alla Citizen Kane contro il quarto potere: il mio scopo è molto più modesto, almeno in apparenza; volevo suggerire qualche motivo per cui uno potrebbe utilizzare Internet per informarsi invece di comprare il Venerdì di Repubblica. Dipende da qualcosa che la mia generazione (sono del ’63) ha vissuto e che è la progressiva “blindatura” dei mezzi d’informazione ed in generale di chi detiene il potere.
Nel dopoguerra, e ci sono infinite storie a confermarlo, forse per il fatto di uscire da una catastrofe mondiale, le persone che contavano erano più facilmente contattabili, nonostante che i mezzi per farlo fossero molto più ridotti di oggi. Parlando di Roma, molti letterati ed artisti andavano abitualmente a Via Veneto, e questo dava una sensazione ed a volte anche una realtà di reperibilità effettiva: in ogni modo, gli indirizzi di casa, in una città ancora non esplosa (o implosa), non erano un segreto per nessuno, con un po’ di fortuna si poteva avere un colloquio: sennò si scriveva, e non di rado la risposta, in qualche forma, arrivava: insomma, valeva la pena tentare. Andrea Camilleri, che non era ovviamente conosciuto come oggi, ha diverse volte menzionato i suoi scambi epistolari con Elio Vittorini. Don Backy, che alla fine degli anni ’50 era un già talentuoso ragazzo toscano, ma certamente non una celebrità, contattò Mario Riva, l’allora notissimo presentatore de “Il musichiere”, e questi gli rispose e lo incoraggiò anche fattivamente (potete leggerlo nel bel sito dello stesso Don Backy). E d’accordo che io penso da sempre che solo i mediocri siano inaccessibili, e Mario Riva mediocre non lo era di certo, tanto è vero che a distanza di cinquant’anni si vedono ancora con piacere certi spezzoni televisivi, solo per il piacere di ricordarne la simpatia, però è evidente che i processi mentali di allora erano diversi. Poi, con la generazione successiva, qualcosa si è rotto: non so se sia colpa del ’68, come dicono alcuni, certo qualcosa è successo. Chi si affacciava al mondo negli anni ’70 ed ancora peggio dopo, col cosiddetto “riflusso”, aveva difficoltà già contattare il professore con cui avrebbe sostenuto un esame universitario per avere qualche chiarimento, figuriamoci scrivere ad una “celebrità” ed avere risposta… Follie, per quelli della nostra generazione, a meno che non si conoscesse, non si fosse amici di amici, insomma non si facesse parte dei “soliti noti”, ecc. ecc.
“Repubblica” è nata nel 1975, ed è intrisa fino al midollo nella mentalità di quell’epoca, che ha prodotto, mi duole dirlo, dei risultati non proprio positivi, più che altro nel senso che ha fatto perdere la sensazione che una meritocrazia potesse esistere, coi risultati che vediamo ancora oggi, e che tuttora ci collocano in quel limbo, come avrebbe detto Ugo La Malfa, grande ministro dell’economia negli anni ’60 e ’70, fra paesi progrediti e paesi in via di sviluppo.
In breve, contattare qualcuno sperando in una risposta (od almeno in un riscontro) era un incubo, e non sto parlando soltanto di grossi nomi della TV o del cinema, ma si scriveva a qualunque amministrazione statale e spesso non si riceveva risposta, si cercava un docente o uno specialista e non lo si trovava, per eccesso di impegni, a meno che, come dicevo dianzi, non si fosse, ecc. ecc.
Questo ha creato l’italiano post-Sessantotto: convinto che tutto vada male, che nulla si risolverà mai e che è inutile tentare, l’unica via possibile è rovinarsi il fegato ed il resto degli organi vitali, e quindi ringhioso, sempre su di giri (a volte sbava pure…). Non so se vi capita di ascoltare “Prima pagina”, è una delle più belle trasmissioni di Radiorai nella sua semplicità, la lettura dei giornali, ogni settimana una voce nuova e quindi una nuova opinione, la prima mezz’ora. Poi ci sono le telefonate degli ascoltatori. Ecco, se ascoltate per esempio la BBC, su Radio Four ci sono dibattiti tutto il santo giorno, ci si confronta, si vedono concordanze e divergenze, ma insomma non ci si salta al collo per nulla come da noi, anche in trasmissioni come Prima Pagina, dove la tendenza di alcuni ascoltatori, non di tutti per fortuna, è quella di pensare “ora che mi hanno dato la linea, nonostante non conosca nessuno in RAI, cerco di approfittarne prima che i soliti raccomandati se ne accorgano” e giù aggressività, a volte invettive del tutto gratuite. Ecco, io di solito a quel punto cambio canale, perché prendersela col giornalista per un problema personale o sociale lo trovo imbarazzante e sbagliato. È la solita malattia italiana di rifarsela col capotreno in caso di ritardi, anzi ancora peggio, perché spesso il giornalista non saprebbe nemmeno dove inoltrare il reclamo (fa il suo mestiere di divulgatore, e non si può pretendere conosca la legge, l’economia, ecc. ecc., in breve tutto).
Internet è stata un’inversione di tendenza, c’è poco da fare, perché tutte le celebrità hanno un sito, e di solito qualcuno che risponde, che non sarà sempre la celebrità in persona, ma insomma è già qualcosa. Poi ci sono i blog, le e-mail personali, che spesso vengono divulgate per trasparenza, in breve si ha la sensazione che il mondo sia più interconnesso, e, udite udite, anche i ministeri e le varie amministrazione a volte rispondono, semplicemente perché si esiste e si ha un problema. Oddio, non sempre rispondono cose ragionevoli, ma questo succede anche nel resto d’Europa e credo faccia parte della natura umana: se non altro è un contatto umano, e dà un po’ di speranza, alle volte i problemi si risolvono anche in questo modo.
Ecco, ma il Venerdì di Repubblica non la vede in questo modo, evidentemente: infatti, titola “Vi fidereste di qualcuno conosciuto su Internet”, titolo grigetto, ma Internet nero. Sotto, in piccolo, c’è scritto “Sempre di più gli italiani (e non soltanto tra giovani) cercano amicizia, amore e sesso nella Rete. Chi sono, perché lo fanno, quanto concludono. Ma anche che cosa rischiano” (grassetto nel testo). Bell’esempio di informazione obiettiva, del genere di obiettività del generale Custer sull’argomento “pellirossa”. Vabbé…
Però mi chiedevo il motivo di tanto astio contro la Rete: naturalmente, lo so, più ci sono contatti Internet, meno uno compra i giornali. Allora, cosa potrebbero fare i giornali ed i giornalisti? Un approccio corretto e moderno credo sia aprirsi verso la Rete, alla Beppe Severgnini per esempio, incontrare i lettori, interagire via Internet, essere aggiornati sui nuovi strumenti telematici (diamine, è sempre comunicazione o no?); certo si fa meno sforzo a dirne peste e corna, come mi sembra sia il caso dell’inserto che ho in mano. Che, sotto una vernice moderna, viene dritto dritto dall’epoca del riflusso, tutti articoli chiusi, nessuna possibilità di interazione (non ci sono manco più le lettere al direttore), figuriamoci avere le mail degli articolisti, come fanno tanti giornali (spesso anche il “Corriere”); insomma un giornale per i “soliti noti”, se conosci qualcuno interagisci, altrimenti resti fuori dai giochi, da semplice lettore, e ti fai guidare da chi ne sa più di te (o crede di saperne più di te, spesso perché è amico di amico, ecc. ecc.) e magari vince qualche premio letterario (questa non me la potevo risparmiare…).
Ecco, permettete che io non compro, ma leggo da Internet: al “mondo chiuso” degli anni ’70-’80 ho già dato: non intendo ritornarci e non vedo proprio come un giornale fatto come trent’anni fa possa dire la propria nella lotta contro il sorridente signore in doppiopetto (e mi spiace, perché vorrei un’alternativa, davvero).
Ma io Internet, senza esaltarla, penso sia un’opportunità, più che una minaccia: e mi permetto di sperare che, dai e dai ad interagire in Rete, gli Italiani post-sessantotto diventino meno frustrati e magari più ottimisti.