
Ricevo e volentieri pubblico un interessante contributo di Carlo Santulli sul tema della sostenibilità, stavolta intesa in senso “sociale”. Nei prossimi mesi è prevista la pubblicazione di un saggio-intervista nel quale si parlerà con il prof. Santulli di ambiente, biomimetica, design, sostenibilità e università.
Sostenibilità sociale
di Carlo Santulli
Recentemente, se andate in certe zone per esempio di Roma, trovate dei cartelli che dicono “Scuolabus a piedi”: si tratta di un’iniziativa dove degli operatori, più frequentemente delle operatrici, qualificate accompagnano i bambini a scuola: quella è solo una fermata, o per meglio dire il (oppure “un”) punto di raduno per questo bus virtuale. Non è soltanto un modo per risparmiare soldi da parte del Comune: è anche un qualcosa che è molto più efficiente (forse addirittura più rapido…) dello scuolabus convenzionale in certe situazioni, per esempio strade in forte pendenza e magari strette, a volte collegate con scalinate o passaggi semi-privati, sensi unici che costringono a giri tortuosi, zone fortemente intensive con brevi distanze “in linea d’aria” tra le abitazioni dei bambini (sto pensando a Monteverde…).
Lo scuolabus a piedi è una delle miriadi di possibili operazioni di sostenibilità sociale: spesso si pensa, sbagliando, che la sostenibilità sia un concetto collegato soltanto con risparmio di materiali ed energia e quindi minore inquinamento; in realtà, la sostenibilità è prima di tutto uno stile di vita: le ricadute positive (città più pulite, polmoni più sani, ecc.) sono la conseguenza di adottare uno stile di questo genere.
Magari sarà banale dirlo, però ci sono delle cose che nella nostra tradizione sono sempre esistite (anche se, duole dirlo, alcune stanno scomparendo) e sono abitudini perfettamente sostenibili: per esempio, passare gli abiti non ancora consunti dai figli maggiori ai minori (oppure al figli dei parenti o degli amici), o anche i giocattoli, oppure prestare e farsi prestare degli attrezzi di ferramenta, invece di comprarli (col risultato di un uso più intensivo), o andare solo se necessario in auto in un certo posto (p.es. sul comune posto di lavoro) e farlo occupando tutti i posti disponibili (quel che si chiama “car sharing”, perché, come sapete, ogni pratica efficiente si dice in inglese…).
Anche l’osteria, nel senso antico del termine, era un modo di ristorazione perfettamente sostenibile: invece di essere pronto a cucinare decine di piatti, l’oste tradizionalmente offriva ciò che aveva cucinato anche per sé e famiglia: questo sussiste ancora per esempio in posti molto isolati, ma difficilmente nelle grandi città. Non sto patrocinando l’abolizione dei ristoranti, soltanto dicendo che offrire sempre e comunque un gran numero di pietanze, senza sapere precisamente quanto serve preparare di ciascuna, porta inevitabilmente a gettare una gran quantità di cibo (anche se ovviamente ogni ristoratore cerca di minimizzare tali sprechi). “Mangia quel che hai nel piatto” è una regola in accordo con la sostenibilità (posso dire che, nella media, quel che ci viene offerto, al ristorante o a casa, è perfettamente mangiabile, in ogni modo abbiamo un gran numero di organi e persone preposte a vigilare che lo sia).
Una pratica sostenibile sono anche gli orti “di massa”, dove si affitta un pezzettino di terreno per uno per una piccola quota, e si piantano di solito verdura e tuberi (c’è chi si spinge anche fino a piccoli alberi da frutto, se permesso), col vantaggio di scambiare le produzioni tra vicini, ove troppo abbondanti (io potrei avere raccolto cinque chili di zucchine ed ambire ad avere un paio di melanzane dal mio vicino d’orto). Si dice tra gli orticoltori alle prime armi che, per non essere delusi, convenga piantare delle patate: le patate non tradiscono mai (poi per i bambini è molto divertente l’estrazione dal terreno, proprio sotto la pianta quasi appassita, dove non ci si aspetterebbe proprio niente…).
Gli esempi possibili sono centinaia, tutti accomunati dal fatto che, oltre che migliorare l’ambiente fisico, si migliora anche quello sociale (l’offerta di un servizio implica sempre una relazione che magari prima non esisteva, il che senz’altro migliora anche la convivenza tra noi): la comunicazione, pur tra screzi e difficoltà, è sempre meglio che l’isolamento. Ne faccio alcuni: bibliotechine con libri messi in comune dal vicinato, spese a turno al supermercato (ovviamente con un’auto ed un viaggio, e non molte auto e molti viaggi), “banche del tempo”, uso collettivo di locali sfitti per laboratori d’arte, “ospitalità” di panni di altre persone del vicinato, dietro un piccolo compenso, nella nostra lavatrice solo mezza piena. Alcune sembrano idee estrose, altre le “digeriamo” meglio, forse. Comunque, le pratiche socialmente sostenibili stanno diventando un qualcosa che vale la pena di conoscere meglio, e presuppone, banalmente, ma in modo essenziale, un grado di appartenenza ad una comunità, sentirsi cioè parte di qualcosa e vincolati da obblighi reciproci di vicinato.
Ci sono libri che ne trattano, meglio ed in modo più ampio di come posso fare io, e ci sono addirittura programmi dell’Unione Europea volti allo sviluppo di queste “sustainable practices”: ci sono siti che danno esempi di come e cosa fare (http://www.sociallysustainable.com) e c’è per esempio il blog di Ezio Manzini, che è un designer come formazione, e crede fortemente, e con ragione, che la sostenibilità sociale si possa progettare, non nel senso di obbligare la gente a far ciò per cui non si sente pronta, ma nel senso di compiere un’operazione come quelle che il design è chiamato a fare: individuare e risolvere problemi pratici della vita di ogni giorno con soluzioni creative e, sì, anche eleganti e funzionali. In certo senso, come Manzini puntualizza, il designer professionale si trova a vivere oggi in una società in cui chiunque progetta, magari non con un processo formale, dal brief al concept all’utilizzo ed alla selezione dei materiali, fino all’ingegnerizzazione ecc., ma nel senso che ha dei problemi pratici di cui cerca la soluzione, spesso da solo, senza aver idea che questa potrebbe essere a portata di mano, se soltanto creassimo una rete efficiente ed affidabile di collaborazioni.
Io vedo anche un altro significato in queste pratiche di sostenibilità sociale, ed è quello di sentirsi veramente parte del cambiamento in meglio della società (in piccolo, ma in concreto); bisogna lasciarsi alle spalle l’epoca della passività, simboleggiata dalla televisione e dai giornali tradizionali, ed imboccare la strada dell’interconnessione e delle reti diffuse: non ne beneficerà solo l’ambiente, ma anche noi stessi.