Negli ultimi anni si fa un gran parlare di “rientro dei cervelli”, specialmente a partire dal 2001, quando (era allora ministro dell’Università e della Ricerca Ortensio Zecchino), si è promulgato il primo decreto con questo intento (D.M. del 26/1/2001 n.13), che ha permesso a circa 400 ricercatori che da almeno tre anni si trovavano fuori dall’Italia di rientrarvi. “Cervelli” non necessariamente italiani, notate bene: d’altronde, nello spirito di Maastricht, si tratta di uno scambio di ricercatori a tutti gli effetti; il fatto che pochi non italiani se ne siano avvalsi, è un dato indubbio, ma non significa che il piano fosse inteso esclusivamente a far tornare gli italiani in patria (anche se così l’informazione del nostro paese l’ha sempre presentato).
I ricercatori rientrano in Italia, dopo una selezione con pareri di esperti esteri che ne sceglie soltanto circa il 20%, con contratti fino a quattro anni, non rinnovabili nella stessa forma. Il legislatore ha voluto così, diciamocelo senza falsi pudori, per evitare che, come la Commissione Europea prescrive, il datore di lavoro abbia, passati i quattro anni di impegno continuativo, un obbligo vincolante di proporre la persona per assunzione, non necessariamente nella posizione che riveste, ma insomma in una posizione “compatibile” con quella precedente. I fondi, anche se ancora qualcuno lo nega, sono di provenienza europea, tanto è vero che sono tassati all’origine, ma senza diritto ad assegni familiari né alla tredicesima, in perfetto stile delle borse di studio e lavoro erogate dalla Commissione Europea, anche se, va detto, su livelli retributivi un po’ diversi.
Al termine dei quattro anni, il ricercatore deve scrivere un resoconto sulla propria esperienza, dando anche al Ministero dei consigli sul possibile miglioramento del programma “rientro dei cervelli”.
Ecco, mi sono chiesto spesso che cosa ci scriverò in questo resoconto, dato che la fine dei miei quattro anni si avvicina a grandi passi. Devo dire che un po’ mi lusinga il fatto che il Ministero mi chieda un parere, ma d’altro canto mi fa un po’ l’impressione di redigere, invece che un rapporto scientifico sulle mie attività, una specie di tema delle medie, del tipo “Raccontate un viaggio che avete fatto”. Comunque, i miei consigli per il miglioramento dello schema “Rientro dei cervelli” li ho, e forse è il momento di tirarli fuori.
Segue il mio modesto cahier de doléances:
1. La legge, come tutte le leggi in questo strano paese, è molto aperta alle varie interpretazioni: il “cervello” rientrato, per esempio deve svolgere trenta ore di lezione (almeno) a semestre; di per sé non sono molte. Inoltre, in una situazione come l’attuale dell’università, avere ricercatori disponibili (anzi, tenuti) ad insegnare è un’occasione interessante. Nella pratica, le università non necessariamente sanno come utilizzare questa risorsa: la soluzione empirica adottata da molti atenei è quella del “tappabuchi” di lusso, per cui si fanno seminari, lezioni, ecc., in vari corsi, ma senza essere titolare di alcun insegnamento. So che tuttavia alcune università hanno fatto la scelta di assegnare un corso, o più, al “cervello” rientrato: non è la regola, e non è prescritto dalla legge, in ogni modo.
2. Il “cervello” è aggregato ad un progetto di ricerca: tuttavia, non si chiede al dipartimento nessun tipo di garanzia sulla disponibilità (e specialmente sull’accessibilità) di laboratori, strutture, ecc., l’unica richiesta è quella di contribuire almeno per il 10% al finanziamento del progetto. Logico nella situazione italiana, si dirà: però, dato che si spendono dei soldi, varrebbe la pena di allentare un po’ di più i cordoni della borsa e fornire qualche fondo di ricerca in più, tale da poter magari comprare qualche apparecchiatura, o attrezzare meglio qualche laboratorio.
3. Corollario del precedente: in realtà il “cervello” non ha di suo nessun fondo di ricerca, e deve sempre e comunque far riferimento al docente “ospitante” per qualunque, anche piccolo, ordine d’acquisto. Questo va benissimo per un dottorando: nel mio caso, vi dirò, ad una ventina d’anni dalla mia tesi di laurea e dall’inizio della mia esperienza di ricerca, è un vincolo, magari piccolo, ma senz’altro un vincolo. Anche perché si parla tantissimo di ricercatori che vengano dall’estero a portare la loro esperienza, ma in realtà il Ministero li vede soltanto impegnati nel portare avanti un progetto di ricerca già strutturato dal docente ospitante (quindi con scarsa autonomia, alla fin fine: è chiaro che, come nel mio caso, ha le proprie idee le porta avanti nonostante tutto, ma si pone, facendo ciò, in una situazione non contemplata dallo schema di “rientro”).
4. Creare un’altra figura giuridica (il “cervello”) tra le miriadi (assegnisti, contrattisti, collaboratori esterni, fantasmi, ecc. ecc.) di soggetti precari nell’ambito universitario italiano non fa altro che peggiorare la situazione già caotica dell’amministrazione dei vari dipartimenti. Ho visto per esperienza che il “cervello rientrato” non si sa bene cosa sia (professore? ricercatore? libero professionista?) ed è visto con preoccupazione nelle segreterie e nelle presidenze, anche perché non è chiaro se abbia dei diritti, quali siano i suoi doveri, ecc.
5. Il più grave, per conto mio: non c’è nessun tipo di valutazione dell’operato del cosiddetto “cervello rientrato”, che in pratica non deve rispondere di quel che fa a nessuno (tranne appunto per questo breve “commento” finale all’esperienza). Questo, lungi dall’incoraggiare deliri di onnipotenza nei “cervelli”, manifesta un’idea del legislatore: che il ricercatore venuto dall’estero non possa/debba comunque integrarsi nel sistema, a meno che all’estero, come precisato da sentenza della Conferenza dei Rettori, non godesse dello stesso “status”, però a tempo indeterminato (ci si chiederebbe, a questo punto, perché uno dovrebbe tornare per non avanzare in carriera, anzi forse per retrocedere).
Nonostante quindi, come vedete da questi cinque punti sopra elencati, la legge sia stata fatta con tutta l’intenzione di non funzionare, ci sia stato anzi, posso suggerire, un profondo studio a questo scopo, siccome noi italiani siamo (diciamolo) geniali, la situazione non è in fondo così tragica. La più parte dei “cervelli” rientrati fanno ricerca con continuità (anch’io mi sono trovato, devo dire, bene, alla fin fine: se ci si dà da fare, si lavora anche bene in Italia), alcuni addirittura hanno trovato modo di vincere dei concorsi (negli anni scorsi, quando c’erano) e così stabilizzarsi. Ma non datene merito al ministero (chiunque ne sia/fosse il titolare): là avevano soltanto dei soldi europei da spendere, ecco tutto: non erano molti (pochi milioni di euro all’anno), ma andavano spesi.
Il punto piu’ dolente secondo me e’ invece il numero 3, il fatto che il cervello non abbia una seppur piccola autonomia in termini finanziari (la ricerca, come dici tu, se un cervello vuole, la fa … See Morecomunque, anche trovando il tempo da solo). E secondo me e’ la prova del fatto che il legislatore non aveva affatto le idee chiare, non solo su come svolgere il programma, ma neanche su chi fossero i destinatari del programma, a quali ‘cervelli’ ci si stava rivolgendo. Le caratteristiche ambientali che descrivi sono tipiche di un ricercatore junior, appena dottorato, o magari dopo il post-doc, PRIMA che si faccia troppo autonomo, che possa portare braccia valide all’ordinario, e nuova linfa ai suoi progetti. Di certo la situazione non fa gola ad un ricercatore gia’ affermato, abituato a prendere decisioni, e magari portare avanti i propri progetti. Costringere quest’ultimo a chiedere anche il finanziamento per partecipare ad un congresso diventa un peso non indifferente.
Mi dicono che nel nuovo progetto “Rientro dei cervell” (scadenza questo gennaio 2010) i fondi vengono assegnati al ricercatore, e non più all’ordinario che lo “ospita”.
Quindi, hai ragione, Floriana, il punto 3 è stato in certo senso risolto. Mi dispiace, a questo punto, soltanto di esser tornato troppo presto… 🙂