Il “problema dell’università” non è un’invenzione recente: l’Italia appena unita nel 1861 si trovava nella medesima difficoltà, insieme alla quale era sentita la necessità di un’epurazione politica di professori compromessi col “passato regime” ed in generale un’elevazione degli standard professionali e didattici (sempre il vecchio problema della meritocrazia).
Al centro di questo processo di rinnovamento, a Napoli, o per meglio dire nell’Ateneo Partenopeo, erano un gruppo di uomini di cultura e d’azione di cui ancora oggi si ricordano i nomi, i fratelli Spaventa, Ruggero Bonghi, Luigi Settembrini, e naturalmente, un po’ sullo sfondo, ma del tutto presenti nella vita pratica dell’università coi loro provvedimenti legislativi di carattere nazionale, quei Casati e Coppino che si occuparono di mettere un minimo di ordine nei sistemi di istruzione dei diversi stati che venivano a costituire il Regno d’Italia.
L’università di Napoli ha origini antichissime, nasce nel 1224 sotto quel Federico II di Svevia di cui oggi prende il nome. Prima dell’unità d’Italia, gli ultimi re delle Due Sicilie, Ferdinando II e Francesco II, avevano privilegiato alcune facoltà, come medicina, a scapito di altre, come giurisprudenza, e malgrado, sull’esempio francese ed anche su un modello diffuso in altri stati italiani (persino nella Roma pontificia) avessero dato un impulso anche alla formazione di un istituto tecnico, del genere di quell’Ecole des Ponts et Chaussées, scuola del genio civile attiva oltralpe dal 1747, erano sostanzialmente su un modello di università regionale, al massimo pluriregionale.
Anche perché, diciamocelo, c’erano delle difficoltà pratiche: per esempio, sotto i Borboni gli studenti delle province interne non avevano diritto di studiare a Napoli, necessitavano di visto, che poteva essere revocato a piacimento. Due iscrizioni secentesche, visibili credo ancor oggi al Museo di San Martino e originariamente site in via Pisanelli, vietavano di affittare case in quel rione a “corteggiane, studenti et altre persone disoneste (sic)”. E, come per le prostitute, la polizia poteva estradare gli studenti avellinesi, calabresi, lucani, ecc., col foglio di via.
Quindi, la “libertà” portò insieme ai Garibaldini, anche un boom di iscrizioni all’università di Napoli (oltre 9000 studenti, che per allora era una cifra enorme) e…la chiusura delle facoltà di teologia, che d’altronde interessava più a pochi, “sparito l’oggetto sparita la filosofia” commentava qualche filosofo ateo.
Francesco De Sanctis, proprio lui, lo studioso di letteratura e acuto critico di Dante, Petrarca e giù fino ai suoi contemporanei, chiamato alla pubblica istruzione il 27 settembre 1860 da re Francesco II, prese effettivamente il governo della scuola e dell’università soltanto il 21 ottobre dello stesso anno, quando fu decisa l’annessione plebiscitaria del Regno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna. In mezzo, c’era stata la battaglia del Volturno (1° ottobre), e tra pochi giorni, con l’incontro di Teano, Garibaldi fu decisamente dissuaso dal proseguire la sua marcia su Roma.
Ebbene, in circa tre settimane, fino al 9 novembre, De Sanctis nominò nuovi professori, istituì una scuola magistrale e vari licei, ed in generale impostò una riforma, che fu l’inizio di una certa modernizzazione dell’università, per cui, nel giro di un breve volgere di mesi, una gran massa di studenti si riversò su Napoli.
Certo, rimanevano dei problemi: la maggior parte degli studenti voleva le “tesi d’esame” (in pratica le domande) piuttosto che seguire le lezioni, c’erano turbolenze, anche sobillate da agitatori sia liberali sia simpatizzanti borbonici, e per esempio la facoltà di lettere restò per vari anni più o meno deserta, a favore di medicina, giurisprudenza e persino della facoltà di scienze. Però tutti dovevano frequentare un corso di letteratura e filosofia, nei primi anni dopo l’unità, se volevano laurearsi, anche gli studenti delle facoltà scientifiche (quando penso a certe tesi che mi capita di leggere oggi, non so se non sarebbe una buona idea, al di là della letteratura, un corso che insegni a scrivere…).
Questa bella storia, molto più complessa di come la faccio io, ma estremamente divertente, per chi ama la storia, è in un libro di Luigi Russo, che ebbe la prima edizione nel 1928 presso Laterza (anche se i primi appunti risalgono al 1924, VII centenario dell’Università di Napoli) “Francesco De Sanctis e la cultura napoletana” (l’edizione che ho io uscì presso Editori Riuniti nel 1983), e ci sono personaggi e situazioni impareggiabili: Annibale De Gasparis, celebre astronomo che dedica un asteroide ai sovrani borbonici, Igea borbonica, e perciò viene risparmiato dalle persecuzioni, pur essendo liberale; le polemiche pro e contro Hegel, pro e contro la storia della letteratura italiana di Settembrini e quella della filosofia di Pasquale Villari, la diffidenza carducciana contro lo stesso De Sanctis, per cui il poeta arriva a tirar giù dal loro ideale trono Paolo e Francesca del canto V dell’Inferno.
Ed è chiaro che molta università ottocentesca ce la siamo portata dietro fino a ieri, con la divisione in cattedre (che non esiste più in teoria, ma ancora in pratica), con certe dissertazioni improvvisate e frettolose, con lo studiare per l’esame, invece che per la vita.
Con qualche differenza: quel senso civico che faceva dire a Francesco De Sanctis “Io voglio fare dell’università di Napoli la prima università d’Europa” e più in generale “la coltura illumina l’avvenire, e fissa il significato di certe idee direttive, e crea la fede in quelle, e l’ardire a recarle ad effetto. Onde nasce la restaurazione della forza morale e del carattere nazionale”, non privo di momenti di scoramento, come quando scrive, nel 1877, “Che sarà dell’Italia, quando la nuova generazione entri in politica con questa persuasione che non si può essere insieme un uomo politico e un uomo onesto?”, ma anche con un suo tutto risorgimentale, anche se realistico, orgoglio: “Quando viviamo in un’epoca, dove tutto si distrugge, poco o niente si edifica, la fede nella patria e la fede nella solidarietà umana, la fede in qualche cosa, che non sia solamente il nostro miserabile egoismo, questa fede io la credo necessaria e salutare per il mio paese”.
Questa fede umana (altri direbbero “spirito di servizio”) di cui abbiamo molto bisogno ancora oggi, insieme ad idee e direzioni chiare, come osserva anche Luigi Russo, parlando di riforma universitaria: “Un’università la si riforma, come si riforma ogni scuola, se c’è una cultura, un indirizzo scientifico nuovo, e generalmente spirituale, da far valere: altrimenti si tratta di quelle riforme cartacee, che i ministri impiantano per prolungare la loro permanenza al potere”. E sono parole che, secondo me, dicono tutto di quel che stiamo vivendo.