Gabriele D’Annunzio, la riscoperta

Specie in passato il D’Annunzio narratore fu oscurato dal D’Annunzio poeta. Ma oggi le cose sono cambiate radicalmente ed al centro dell’attenzione sono quei romanzi a cui il Vate si dedicò con un impegno almeno pari rispetto a quello profuso per la poesia. Ne sono testimonianza gli studi più recenti, tra cui quello di Guido Baldi, Le ambiguità della “decadenza.” D’Annunzio romanziere (Liguori, Napoli, 2008), e la nuova edizione Rizzoli (2009) del romanzo “veneziano”, Il fuoco.

Con il ciclo dei romanzi della Rosa (Il Piacere , L’innocente e il Trionfo della Morte), che studiano “lo spirito di analisi e il pessimismo occidentale conducenti alla malattia della volontà”, e Le Vergini delle Rocce e Il fuoco, in cui si afferma la teoria del Superuomo, D’Annunzio si pone al centro del romanzo europeo e delle sue problematiche di rinnovamento. Non si limita, come altri scrittori “decadenti”, a contaminare prosa e poesia, ma minimizza la trama e ancor prima del “flusso di coscienza” si concentra sul fluire delle sensazioni e dei sentimenti. Come si vede soprattutto dai romanzi, per D’Annunzio i termini di “decadenza” o “decadentismo” sono fonte di equivoci.

Per lui la creazione artistica non è una manifestazione di debolezza o malattia, ma, come voleva Nietzsche, di vitalità: “vivere con goia” è anche “creare con gioia”. Molti lettori, in specie stranieri, ammirarono questa forza nei romanzi dannunziani, e videro in essi, particolarmente nel Piacere, una sorta di compendio della civiltà italiana. Aldous Huxley scriverà più tardi che gli italiani sono semplici comparse su di un grande affresco storico. D’Annunzio dimostra o tenta di dimostrare il contrario, facendo dei suoi (italianissimi) personaggi gli eredi e i depositari di quel passato d’arte e di cultura.

(via Il Tempo)

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