Il Rock e il fascino dell’ignoto

Il Rock, genere musicale quanto mai incline a contaminazioni tra generi, ha spesso subito il fascino dell’ignoto.

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Alan Parsons e Eric Woolfson

Un esempio luminoso di questa tendenza è costituito dalla produzione dell’ensemble musicale nota agli appassionati di tutto il mondo con la sigla Alan Parsons Project.

In particolare il compianto Eric Woolfson, che della band fu l’ispirato scrittore dei testi e cantante solista, come ebbe a raccontarmi nel corso di un’intervista rilasciatami qualche anno fa, sentiva molto il fascino dell’ignoto, del cosiddetto “beyond”.

Profondo estimatore della letteratura gotica, non a caso compose assieme ad Alan Parsons, l’altra metà del gruppo, l’album Tales of Mistery and Imagination (1976), ispirato ai racconti del grande Edgar Allan Poe, lavoro successivamente trasposto e rappresentato con grande successo anche in musical.

L’anno seguente è la volta di I Robot, composto sotto l’influenza di uno dei padri della fantascienza moderna, “Il Buon Dottore” Isaac Asimov. Nel 1978 l’attenzione del duo si concentra invece sugli insondabili misteri dell’antico Egitto, con l’album Pyramid, sospeso tra le tipiche sonorità elettroniche di APP e le atmosfere misticheggianti e sfuggenti dell’Egitto delle piramidi millenarie.

Ma la fantascienza di lì a poco tornerà prepotente nell’orizzonte creativo del vulcanico duo: nel 1982 esce Eye in the Sky, album dal quale sarà tratto un singolo di grandissimo successo. Il disco cita apertamente, a partire dal titolo, il Philip K. Dick dell’ultimo periodo, quello più oscuro della Trilogia di Valis. Il tema della “divina invasione” è inserito da Woolfson all’interno di un disco da un lato accattivante e di grande presa, dall’altro denso di significati più profondi per… chi voglia o possa coglierli.

In anni più recenti, quando ormai la collaborazione tra Alan Parsons ed Eric Woolfson si è conclusa, il solo Parsons pubblica l’album A Valid Path, che contiene una vera e propria perla, la lunga suite strumentale intitolata Return to Tunguska.

Il brano, dedicato all’evento che colpì l’ormai celebre cittadina russa, sembra avallare la tesi di chi sostiene che la colossale distruzione avvenuta in zona sia stata causata non dalla caduta di un grosso meteorite, ma dall’atterraggio di un’astronave aliena di ritorno sul nostro pianeta, come allude appunto il titolo del brano suonato da un David Gilmour stellare – è il caso di dire – che omaggia apertamente le atmosfere “cosmiche” e psichedeliche tipiche dei primi Pink Floyd. Quelli di Interstellar Overdrive, per intenderci.

Per quanto concerne il Bel Paese, dal canto loro i musicisti di casa nostra non sono rimasti immuni dal fascino delle civiltà perdute.

È il caso di un esordiente Riccardo Cocciante, che pubblica nel lontano 1972 un bel 33 giri di rock progressive, genere musicale allora in gran voga, intitolato nientemeno che Mu.

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i Trip

Non solo: per una curiosa coincidenza, nello stesso anno una delle band più apprezzate di quegli anni, i Trip, pubblica anch’essa un album che trae spunto dalla medesima leggenda.

Il disco è Atlantide, ed è sempre all’insegna del rock progressive. Particolare interessante, la versione originale pubblicata su vinile era caratterizzata da una copertina, realizzata con cura certosina dallo studio Up & Down, raffigurante una immaginaria mappa dell’isola.

Per concludere, la mitica città è citata anche nel brano omonimo Atlantide apparso come lato B del 45 giri Buffalo Bill, pubblicato nel 1976 da un giovane, ma già molto apprezzato, Francesco De Gregori.


N.d.A.: questa recensione è già apparsa in una versione leggermente differente sulla rivista XTimes, edita da Xpublishing.

“I Racconti del Sangue e dell’Acqua” e “Solo il Mare Intorno”: l’orrore viene dall’acqua!

Nero Press presenta due raccolte di racconti su carta: “I Racconti del Sangue e dell’Acqua” di Daniele Picciuti, e “Solo il Mare Intorno” di Danilo Arona, Luigi Milani e Angelo Marenzana.

L’orrore viene dall’acqua! E’ questo infatti l’elemento che accomuna i due libri. Se nel primo l’acqua e il sangue compongono i due cicli di storie, nell’altro l’acqua mescolata al sangue, bagna le tre isole dove sono ambientate le vicende e (forse) protegge il resto del mondo dal male.

I racconti vanno tutti dal thriller all’horror, prendendo spunto da leggende tradizionali o inventate ad hoc, e alcuni ti trascinano su terreni più estremi, come lo splatter.

“I Racconti del Sangue e dell’Acqua”
di Daniele Picciuti
€ 15

Tredici racconti ambientati nell’Italia misteriosa, che si alimentano delle leggende e delle storie più care alle nostre tradizioni. Narrazioni sospese tra realtà e incubo, suddivise in due cicli.

Il primo, il ciclo del sangue – linfa vitale dell’uomo e di ogni creatura animale – aggressivo e violento, omaggia Clive Barker. Il secondo, il ciclo dell’acqua – a sua volta fonte primaria di ogni forma di vita sulla Terra – indaga le paure umane, esplora il baratro della follia, arrivando a ricordare H.P. Lovecraft.

Il libro, pubblicato in passato per altro editore, ora esce in una nuova edizione impreziosita dalle bellissime illustrazioni di Roberta Guardascione, capaci di far “vivere” le situazioni più suggestive. Lasciati trascinare da Daniele Picciuti per l’Italia, tra misteri, leggende e orrori.

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“Solo il Mare Intorno”
di Danilo Arona, Luigi Milani e Angelo Marenzana
€ 13

Il libro racchiude tre lunghi racconti a tema horror marino basati su leggende e miti antichi.

Si tratta di Croatoan Sound di Danilo AronaPiedra Colorada di Angelo MarenzanaL’isola senza morte di Luigi Milani, già usciti in digitale nella collana Insonnia.

Per chi si fosse perso questi tre ottimi lavori, è l’occasione di averli tutti e tre in un colpo solo, con l’ottima prefazione di Giulio Leoni.

Voglia di mare? Ti aspettano tre isole avvolte dal mistero e bagnate da un mare di sangue.

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Mu, il mito del continente perduto secondo Hugo Pratt

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Corto Maltese, Mu. La città perduta • © Rizzoli Lizard

Mu, il mitico continente perduto, ha sempre esercitato una grande influenza sugli artisti più aperti alle dimensioni del mistero, delle verità non conclamate e del mito. Dimensioni che, se indagate a dovere, possono dischiudere nuovi orizzonti di conoscenza, in quello che può rivelarsi un vero e proprio viaggio iniziatico per chi abbia il coraggio di intraprenderlo, senza timore di esporsi al ridicolo o all’insuccesso.

In campo letterario già il grande Howard P. Lovecraft nel primo scorcio del secolo scorso riprese il mito di Mu nel celebre Ciclo di Chtulhu, oltre che in diversi altri suoi racconti. In tempi più recenti, uno scrittore di grande seguito come Neil Gaiman ha citato Mu nel romanzo Buona Apocalisse a tutti.

Ma è in campo fumettistico che è stato maggiormente celebrato il celebre mito del continente perduto. Oltre alla saga di Martin Mystere del sempre più enciclopedico Alfredo Castelli, mi piace ricordare una storia del 1979 che vede protagonista l’eroe disneyano per eccellenza, Topolino, nella storia Topolino e l’enigma di Mu. Numerosi anche i richiami presenti nella serie, amatissima dal grande pubblico, di Saint Seya – I Cavalieri dello Zodiaco.

Tuttavia è sul finire degli anni Ottanta che Mu conosce la più compiuta rappresentazione, ad opera di Hugo Pratt. Il grande romanziere grafico fa compiere al suo più celebre personaggio, Corto Maltese, l’ultima avventura della sua spericolata e affascinante carriera, proprio alla ricerca di Mu: l’opera, pubblicata dapprima a puntate sul mensile Corto Maltese a partire dal mese di novembre 1988 e successivamente raccolta in volume è stata continuamente ristampata, come del resto quasi tutta l’opera del grande cartoonist, fino a oggi.

Mu. La città perduta è senza ombra di dubbio una delle storie più belle di Pratt, non solo tra quelle che hanno per protagonista Corto Maltese, ma più in generale dell’intera produzione del geniale artista. La storia, ambientata nel biennio 1924-1925, vede sulla scena un giovane Corto, assieme ai compagni di viaggio Rasputin, Steiner, Levi Colombia, Bocca Dorata, Tristan Bantam e Soledad. In tal senso si quasi ha l’impressione che l’autore abbia voluto riunire l’intera corte dei personaggi della saga di Corto Maltese, per quello che a tutti gli effetti sarà l’ultimo lavoro realizzato dal grande artista.

Pratt fa compiere al suo eroe un viaggio che lo porterà dai Caraibi alle piramidi dei Maya alla ricerca di Mu. Quello che scaturisce dalle matite incantate e rarefatte di Pratt è un percorso esoterico, non privo di riferimenti alti, a metà tra la storia e la filosofia: indimenticabili in tal senso le prime tavole del volume, che mostrano un Corto Maltese palombaro intento in un dialogo dal sapore lisergico con i filosofi greci Timeo e Crizia, che crede di intravvedere in due pitture Maya.

Eppure la narrazione non è mai appesantita da sterili intellettualismi, venata com’è dell’ironia e del disincanto tipici non solo del personaggio di Corto Maltese, ma anche e soprattutto del suo autore. Avventura, sogno e mito sono amalgamati da Pratt con maestria e gusto, qualità che oggi sono ardue da trovare nel panorama fumettistico mondiale, impoverito e soverchiato com’è da media dai linguaggi più immediati, adatti a un pubblico ben diverso da quello di un tempo.

In conclusione Mu. La città perduta rappresenta un esempio luminoso di fumetto inteso come grande forma d’arte, in grado di trarre linfa vitale anche da quei temi a volte snobbati dalla cultura cosiddetta “alta”.


N.d.A.: questa recensione è già apparsa in una versione leggermente differente sulla rivista XTimes, edita da Xpublishing.

Giacomo Balla, oltre il futurismo

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Giacomo Balla, Un’onda di luce, 1943 • © Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma

C’è una splendida mostra da visitare, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, ancora in corso purtroppo solo fino a domani, domenica 26 marzo. A cura di Stefania Frezzotti, espone opere tratte dall’intera, strepitosa carriera di Giacomo Balla, artista che a torto è stato “solo” considerato uno dei massimi esponenti del Futurismo.

Questa esposizione rivela al contrario al grande pubblico anche la produzione pre e post futurista, non meno interessante e valida, legata com’è a tecniche mutuate dalla fotografia da un lato e al ritorno al realismo nell’ultima fase della produzione di Balla.

Peccato solo per la davvero troppo esigua durata della mostra, appena un mese. Avrebbe meritato un lasso di tempo ben più esteso.

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Giacomo Balla, Autodolore, 1947 • © Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma

 

 

 

Live in Roma: il ritorno di Battiato e Alice

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Lo scorso autunno è uscito Live in Roma, disco dal vivo della coppia Franco BattiatoAlice, ricostituita lo scorso anno per un fortunatissimo tour grazie anche alle insistenze dello stesso Franco Battiato: com’è noto, la cantante forlivese in questi ultimi anni ha intrapreso un percorso artistico piuttosto defilato, che l’ha vista spesso lontana dalle luci della ribalta.

L’album presenta una carrellata di successi dai loro ricchi repertori, più tre duetti. Un lavoro interessante, se come me amate la musica – e i testi, non meno validi – dei due artisti. Forse la presenza di Alice appare un po’ sacrificata, ma tant’è.

Per approfondire:

http://blog.graphe.it/musica/live-in-roma-battiato-alice

Video © TG1 Rai

Addio a Bernie Wrightson

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Swamp Thing, copyright D.C. Comics

È davvero un triste periodo per il mondo dell’arte: Bernie Wrightson, maestro indiscusso del fumetto, è scomparso il 18 marzo, a 68 anni, dopo una dura battaglia contro un male crudele.

Negli ultimi mesi aveva abbandonato il disegno proprio in seguito all’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Il suo stile rimarrà unico, inimitabile: elaboratissimo e intricato, poco supereroistico – anche se la sua interpretazione di Batman era a dir poco strepitosa – sapeva rendere come nessun altro i personaggi e le atmosfere horror.

Il suo capolavoro rimarrà senz’altro Swamp Thing, personaggio creato negli anni ’70 assieme allo scrittore Len Wein per la D.C. Comics.

Addio a Chuck Berry, demiurgo del rock

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È scomparso ieri, alla veneranda età di 90 anni, Chuck Berry. Il suo nome forse non dirà molto alle nuove generazioni, ma non è esagerato affermare che senza la sua musica non esisterebbe il rock.

Il il rock’n roll e il blues come li conosciamo oggi sono in un certo senso nati con lui, oltre che naturalmente con la sensualità e l’energia del primo Elvis Presley. E gruppi come i Rolling Stones di Keith Richards, i Beatles (leggi cosa dice Paul Mccartney in proposito), i Beach Boys e i Doors hanno tutti attinto a piene mani al sound inconfondibile della chitarra di Chuck.

Di Chuck Berry, vero e proprio prototipo della figura della rockstar dalla vita tormentata ma anche, sia pure a fasi alterne, di grandissimo successo, John Lennon aveva detto:

Se volete chiamare il rock in un altro modo chiamatelo Chuck Berry.

Addio, Chuck: continua a suonare i tuoi magici riff lassù, magari assieme al tuo fedele discepolo John.

Quello che potete vedere qui sotto è un raro video che mostra proprio Chuck Berry e John Lennon assieme, in una versione atipica della celeberrima Johny B Good.

last update 25-03-2017

La classe dirigente italiana? Non legge

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L’editore Angelo Guerini, intervistato da Stefano Righi per il Corriere della Sera, denuncia con forza ma anche amarezza le pesanti difficoltà in cui versa oggi l’editoria in Italia:

Nell’87 la saggistica presentava una fascia di lettori forti, ad alta scolarizzazione, a cui corrispondeva un’offerta varia, a costi ragionevoli. Oggi prevale una logica unitaria e devastante che espelle dal canale libreria il prodotto non legato al mass market. In più si è passati dai librai ai commessi, cambiamento che rende straordinariamente difficile il nostro lavoro.

Analizza poi il problema dei canali distributivi, che mortificano l’editoria non di massa:

[…] Amazon? Si è sviluppato in forza delle scelte demenziali del canale tradizionale. Quando si impongono sconti del 65 per cento sul prezzo di copertina, quale prodotto può reggere? Le barzellette di Totti… La scomparsa dei librai, che erano garanzia di varietà, sostituiti da centri di acquisto che decidono l’assortimento di tutta la catena, ha contribuito a produrre un’offerta appiattita verso il basso, in un regime di sostanziale oligopsonio. E se pensiamo che le università oggi sfornano laureati bookless, possiamo dire che si sta realizzando il sogno bacato degli autonomi del 1977.

Non solo, lamenta anche la caduta verticale dei lettori:

La maggior flessione degli indici di lettura si è avuta tra i giovani laureati. Il risultato è un ceto dirigente improvvisato, privo di cultura, incapace di leggere la realtà. L’indice di assorbimento della saggistica a Roma, negli ultimi dieci anni, è passato dal 18 all’8 per cento: la classe dirigente italiana non legge.

Insomma, per citare una celebre canzone di Adriano Celentano di qualche anno fa, la situazione non è buona. Per niente, aggiungo più modestamente io.

H.P.L.

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H.P. Lovecraft, © Dino Battaglia

Ricorre oggi l’anniversario della scomparsa, avvenuta il 15 marzo 1937, del Solitario di Providence, il grande Howard Phillips Lovecraft

La portata innovativa della sua opera e l’influenza che l’autore ha esercitato e continua a esercitare su intere generazioni di scrittori, registi e musicisti sono argomenti ben noti ai tanti estimatori di HPL.

Eppure vale la pena di leggere l’appassionato ritratto di Lovecraft apparso oggi su Graphomania: c’è ancora così tanto da apprendere dalla lezione di questo autore  – ma anche poeta, critico letterario e saggista – dall’immaginazione sconfinata e dalla tecnica narrativa unica!

Per approfondire:

http://blog.graphe.it/2017/03/15/hp-lovecraft-vita-opere

The Beatles at The Hollywood Bowl

Nel lontano 1977, da Beatlemaniaco di stretta osservanza (lo sono tuttora) acquistai l’LP The Beatles at the Hollywood Bowl. L’uscita del disco, ben orchestrata dalla stampa specializzata – Internet era ancora di là da venire – rappresentò un vero e proprio evento nella storia della discografia “postuma” dei Beatles, dal momento che si trattava del primo album dal vivo ufficiale (bootleg a parte, ovviamente) dei mitici Fab Four.

Ma quel disco era importante più per la sua rilevanza storica, come documento sonoro di un periodo irripetibile, che non per la sua reale qualità: le registrazioni originali avevano catturato solo in parte le voci e la musica dei 4 ragazzi di Liverpool. A farla da padrone era più che altro il chiasso colossale generato dalla folla in delirio.

Pochi mesi fa, in occasione della presentazione di The Beatles: Eight days a week – The touring years, lo splendido docu-film di Ron Howard, l’album è stato ripubblicato in una nuova versione arricchita anche da alcuni brani prima assenti.

Al di là del marketing, questa nuova edizione rende finalmente giustizia a quei concerti: il CD oggi vanta infatti un suono di buona qualità, lontanissimo da quello pressochè inascoltabile dell’originale disco in vinile.

E ne emerge anche con grande chiarezza il formidabile impatto sonoro della band: soprattutto l’accoppiata basso-batteria sorprende per potenza e precisione. E teniamo presente che sono ancora i Beatles del periodo pre psichedelico, prima di Revolver e di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band per intenderci…

Per approfondire