Per diversi anni, tra la fine degli anni ‘70 e per buona parte del decennio successivo, Phil Collins è stato attivo su più fronti artistici.
Nelle pause tra l’impegno come cantante, batterista e front-man dei Genesis, lo scatenato artista britannico ha lavorato come session man su dischi di altri artisti, come produttore e molto altro ancora (perfino attore!).
È nelle vesti di batterista e in qualche occasione cantante che lo ritroviamo nelle fila dei Brand X, band britannica di fusion jazz-rock nata a Londra nel 1975. Ma non è tanto di Collins che vi voglio parlare oggi, quanto di Product, l’album alle cui registrazioni prese parte nella primavera del 1979.
Difficile catalogare questo lavoro in un genere musicale preciso, a meno di non accontentarsi del generico “jazz fusion”. C’è molto di più: echi progressive, suoni rock, o se preferite pop-rock, specie nei brani cantati e composti, guarda caso, da Collins.
I suoni sono semplicemente una delizia per le orecchie di chi apprezza questo tipo di musica: tastiere, chitarra, basso e batteria sono suonati a livelli mostruosi. Certo, il rischio di sconfinare nel virtuosismo autocelebrativo c’è, inutile negarlo. A evitarlo contribuiscono però la struttura dei brani, composti nella forma, nonostante tutto, della canzone, nonché l’abile mescolanza di atmosfere e cambi di tempo.
Basta ascoltare i primi brani per rendersi conto del livello del disco. Certo, il primo pezzo, Don’t Make Waves, sembra a tutti gli effetti tratto da un album dei Genesis “che verranno” (teniamo bene a mente che non è ancora uscito Duke): solido rock, adatto a essere eseguito dal vivo, magari in uno stadio.
Ma anche la traccia seguente, Dance of the Illegal Aliens, non scherza affatto: a un inizio tranquillo segue una specie di piacevolissima deflagrazione sonora in un tripudio di suoni elettrici.
Soho, di nuovo cantata da Collins, è ancora più pop del primo brano, ma tutto sommato non sfigura, anche se temiamo che i fan dei Brand X all’epoca saranno rimasti abbastanza disorientati al suo ascolto.
L’album prosegue con una scoppiettante successione di brani che spaziano tra pop, rock e qualche incursione nel prog, il tutto shakerato assieme a sonorità e intermezzi jazz. Analizzare ogni singolo brano svilirebbe un poco il senso complessivo del… prodotto, che a mio parere va ascoltato e gustato nella sua variegata e a tratti complessa interezza. Complessa, sì, perchè non si tratta di un disco da ascoltare in sottofondo, dal momento che richiede all’ascoltatore molta attenzione e coinvolgimento. Ma ne vale la pena, credetemi.
Product, insomma, è un disco da scoprire, insomma, o da riscoprire, a seconda dei casi. È connesso all’universo progressive, sì, ma in maniera sfumata e comunque non decisiva, a meno che non si voglia considerare la presenza di Collins decisiva in tal senso. Ma, sebbene il marketing dell’epoca avesse furbescamente evidenziato il suo nome nella relativa campagna pubblicitaria, in realtà il poliedrico musicista si mise al servizio di un progetto collettivo che intendeva superare gli steccati musicali della discografia della fine degli anni ‘70.
Non posso certo affermare che l’operazione fu coronata dal pieno successo, ma il tentativo fu apprezzabile, e a distanza di molti anni dall’originaria pubblicazione Product regge molto bene il peso del tempo, suonando ancora oggi innovativo ed elettrizzante come allora.