ABBA… tars!

Il New York Times ha dato molto risalto – giustamente direi – al prossimo tour degli Abba. Proprio così, avete letto bene: la mitica band pop svedese, scioltasi di fatto nel 1982, ha deciso di riunirsi.

ABBA’s motion-capture suits.Credits via ABBA

E fin qui niente di strano, vista la tendenza di molti gruppi musicali del passato a più o meno redditizie, talvolta patetiche reunion. Certo, non sempre il risultato è dei migliori e vedere i volti inevitabilmente e crudelmente invecchiati di artisti che ricordavamo belli come divinità fa male, diciamocelo.

Ma la novità concerne proprio l’aspetto, dal momento che i quattro musicisti si esibiranno sì in tour il prossimo maggio in un locale di nuova costruzione, ma non in carne e ossa, bensì sotto forma di avatar digitali.

Insomma, stiamo a vedere… e anche sentire, certo, visto che a giorni, il 5 novembre, sarà pubblicato il nuovo album di inediti della band.

Non è la prima volta che si ricorre a tale tecnologia – lo si è fatto per Michael Jackson per esempio – ma stavolta l’operazione si prospetta molto ambiziosa e curata: la realizzazione degli avatar dei 4 Abba è opera della Industrial Light & Magic, non so se mi spiego.

Franco Battiato, non un vero addio

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Vivere non è difficile potendo poi rinascere.

Cambierei molte cose un po’ di leggerezza e di stupidità.

Nell’autunno del 2019 segnalavo sulle pagine di questo blog quello che purtroppo si è confermato come l’ultimo album di Franco Battiato, Torneremo ancora.

La scomparsa del grande cantautore, ahinoi non inattesa, anzi temuta da qualche anno, da quando aveva lasciato le scene, colpisce al cuore, avvenuta oltretutto a poca distanza dalla morte dell’amica Milva, per la quale F.B. curò l’ultimo album. Nel 2017 era venuto a mancare Giusto Pio, molto più di un collaboratore per il musicista catanese.

Ci sarebbe molto da dire sull’arte di Battiato: sperimentatore ardito e intransigente di musica elettronica e progressive nei primi anni ’70, cantautore Pop-rock negli anni seguenti, regista cinematografico, intellettuale colto e autoironico, mistico sui generis. Continua a leggere “Franco Battiato, non un vero addio”

The Future Bites, Steven Wilson

A fine gennaio è uscito, dopo qualche rimando causato dalla solita, perdurante pandemia, il nuovo album di Steven Wilson, The Future Bites.

Musicalmente, S.W. sembra prendere le distanze dal prog, da lui praticato con gusto e intelligenza in passato, non solo con i suoi Porcupine Tree. Vira piuttosto verso nuove sponde: synth pop, electro-funk, rock-dance sofisticato alla Giorgio Moroder.

Sul fronte dei testi, l’artista, che in passato ha stigmatizzato il dilagare delle fake news propinate ad esempio dall’orrido Facebook, stavolta prende di mira gli eccessi del consumismo.

Do they know it’s Christmas?

Nell’ormai lontano (davvero? Eppure mi sembra così vicino, per averlo vissuto in prima persona) 1984, Bob Geldof e Midge Ure (all’epoca leader ispirato della mitica band degli Ultravox) dettero vita a un’utopia musicale con finalità benefiche: la fondazione di Band Aid, sorta di supergruppo britanno-irlandese.

Geldof si riproponeva di raccogliere fondi per contrastare la piaga della fame in Etiopia grazie alla pubblicazione del singolo, che ottenne un successo planetario, Do They Know It’s Christmas?

Oggi più che mai abbiamo bisogno di utopie e di sogni da realizzare come quello di Bob Geldof.

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1969. L’anno della controcultura: parole, musica e immagini

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Se c’è un giornalista preparato sulle vicende e le tendenze artistiche, soprattutto musicali, che hanno caratterizzato gli anni ’60 e ’70, ebbene questi è senz’altro il vulcanico Ernesto Assante.

La mostra da lui curata all’Auditorium di Roma rievoca con leggerezza ma anche grande acume e agilità gli anni della controcultura e della rivoluzione giovanile. Si parte dalla celeberrima Beat Generation degli anni ’50 di Jack Kerouak fino agli eventi epocali, appunto, del 1969 (l’allunaggio, il concerto-fiume di Woodstock, la terribile strage di Bel Air, il canto del cigno dei “Fab Four” Beatles…).

Si possono ammirare, attinti dalle collezioni del buon Ernesto, libri, giornali, poster, dischi, biglietti di concerti, memorabilia e foto d’epoca dell’archivio di Getty Images. Non si può non rimpiangere la creatività scatenata di quegli anni, quando ogni poster promozionale, locandina di concerto e copertina di disco costituiva un unicum di rara bellezza.

La mostra è aperta sino a lunedì 6 gennaio, quindi se avete la possibilità di visitarla affrettatevi: ne vale la pena, credetemi.

Il 1969 di Achille Lauro

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Non credevo che avrei mai segnalato su queste pagine l’album di un personaggio come Achille Lauro. Non per snobismo, ci mancherebbe: semplicemente perché la “trap” è lontana dai miei gusti musicali.

Ma l’album 1969 del rapper romano va decisamente oltre il genere di partenza, a mio avviso un po’ “ignorante”, se mi passate l’aggettivo. I brani di questo lavoro tendono infatti al rock, almeno nelle sonorità quasi punk ad esempio di Rolls Royce, il brano portante dell’album nonché illuminante biglietto da visita del nuovo corso artistico intrapreso da A.L.

Nuovo non in senso letterale, beninteso, dal momento che i riferimenti sono perlopiù a miti e icone storiche di un passato “bello e maledetto” come Marilyn Monroe, Elvis Presley, James Dean, Jimi Hendrix, la Rolls Royce del brano già citato.

Evidenti anche i richiami a certo cantautorato di rottura, dallo sberleffo finto non sense del grande Rino Gaetano al sarcasmo del primo Vasco Rossi: il tutto shakerato con suoni e linguaggio di oggi.

Insomma, 1969 è un buon disco, da ascoltare senza pregiudizi.

Il ritorno della divinità: Maeba, di Mina

Maeba

Non vorrei vi fosse sfuggito Maeba, il nuovo disco di quella divinità aliena che risponde al nome di Mina.

La divina, pur assente dalle scene dalla fine degli anni ’70, ha continuato implacabile a produrre dischi a cadenza annuale: a volte i risultati sono stati all’insegna della routine (sempre all’interno dei parametri stellari di Mina, intendiamoci).

Ma altre volte ha regalato al suo pubblico vere e proprie perle, come il primo disco di duetti con il pard Celentano (del 1998), o l’album Piccolino del 2011 (di quest’album vi consiglio di ascoltare la struggente Compagna di viaggio, del compianto Giorgio Faletti).

Quest’anno le è di nuovo riuscito il miracolo. Sì, perchè ha davvero del miracoloso la qualità della sua voce, in grado di passare dai toni più lievi e delicati al tipico birignao strafottente e quasi sprezzante di Mina, fino al dispiego a pieni polmoni come nessuna cantante – non solo della sua età – riesce o si azzarda a fare.

Ma torniamo al disco. È un lavoro stupefacente: c’è la Mina sontuosa anni ’70 del brano d’apertura Volevo scriverti da tanto; quella stralunata, quasi sperimentale de Il tuo arredamento, di una cover destrutturata e affascinante di Last Christmas di George Michael… ma ci sono anche Blues, pop, jazz, il tutto condito da arrangiamenti e sonorità mai banali o tirate via.

Sono gli ingredienti che mancano ad esempio a Giorgia: una voce da paura, ma servita da un materiale il più delle volte non all’altezza, diciamocelo.

Concludo segnalandovi che Il brano di chiusura del disco, Un soffio, psichedelico e folle, è musicato da un certo Boosta

‘NUff said, ragazzi.

Addio a Leon “Ndugu” Chancler

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Altra brutta notizia per il mondo della musica: pochi giorni fa, il 3 febbraio, è scomparso all’età di 65 anni Leon “Ndugu” Chancler, uno dei batteristi più dotati di sempre.

Possedeva un sound unico, inconfondibile. Se volete ascoltarne un esempio, ascoltate il formidabile attacco della celeberrima Billie Jean di Michael Jackson.

Tra l’altro, di recente avevo menzionato il nome di “Ndugu” nella recensione a una biografia dedicata a Jackson, la cui prefazione era stata scritta proprio dal grande batterista.

Villains, il nuovo “diabolico” album dei QOTSA

cover QOFTSA

A fine agosto è uscito Villains, il nuovo, attesissimo album dei Queens of the Stone Age. Ho volutamente atteso qualche settimana e soprattutto effettuato diversi ascolti prima di decidermi a scrivere qualche riga sul disco.

Il motivo di questo rimando è dovuto all’impressione francamente poco felice suscitata dal primo ascolto. Speravo che il tempo avrebbe mitigato la sensazione, invece…

Temo che stavolta il vulcanico (e spesso geniale, diamo a Cesare quel che è di Cesare) Josh Homme abbia esagerato. A partire dalla scelta di Mark Ronson nel ruolo di produttore: stellare sì, ma a mio modesto avviso troppo trendy e in definitiva fuori ruolo, insomma poco adatto a produrre una band di… di cosa, a questo punto? Alternative rock, funky-jazz, disco-rock, pop?

Se da un lato è apprezzabile l’inesausta volontà di ricerca di Homme verso nuove sintesi musicali, in questo caso il risultato non convince: il disco suona fin troppo moderno, “alla moda”, nel senso che i suoni sono elaboratissimi, furbi, a tratti duri sì, ma solo quanto basta per catturare l’eventuale nuovo ascoltatore. Non certo chi ha amato i precedenti lavori della band, compreso l’interessante Like Clockwork, che al contrario era un ottimo album, ricco di idee e ben suonato.

Del resto nello stesso periodo non meno valida risultò la collaborazione di Homme al recente disco di Iggy Pop, Post Pop Depression, all’insegna di un robusto rock dal sapore vintage, sia pure contaminato da bagliori dance.

Che dire, speriamo in futuri ravvedimenti di Homme e soci…