Qualche tempo fa parlavo del libro di Paolo Mazzocchini, “Studenti nel paese dei balocchi”, che mostrava efficacemente lo sgomento e la preoccupazione di un insegnante in una scuola dove la formazione conta sempre meno, mentre la burocrazia e le scartoffie sempre di più, in breve la “scuola del POF”, quel Piano dell’Offerta Formativa, che stabilisce, come ha scritto qualcuno in vena di freddure, quel che “poffiamo” fare in ambito scolastico, cioè (più seriamente) tutto ciò che la scuola offre all’utente, cioè all’alunno (al proposito non è sbagliato quanto dice l’autore, che mutare uno che deve imparare in uno che deve usufruire di un servizio, ne cambia profondamente la natura, sicché l’apprendimento viene declassato a caratteristica accessoria: ancora una volta, le parole sono importanti).
Avevo espresso perplessità su alcuni aspetti specifici della trattazione, ritenendo che la modernizzazione della scuola sia un’esigenza ineludibile e che sicuramente, specie in ambito tecnico-scientifico, i programmi vadano aggiornati e resi più compatibili con la realtà lavorativa di oggi: tuttavia non mi sfuggiva la serietà di approccio di Mazzocchini, che è un insegnante che vuole formare convenientemente i giovani ed in modo solido e non di facciata. Se queste sono le basi, mi dicevo, il “tiro”, per così dire, si aggiusta con relativa facilità. In tutto ciò, stavamo ancora parlando della scuola del ministro Fioroni: mi chiedevo come l’autore avesse vissuto il passaggio alla scuola di Mariastella Gelmini, sospettavo di conoscere la risposta ed offrivo in anticipo un abbraccio solidale.
L’autore molto gentilmente mi ha inviato alcuni suoi scritti, a cominciare dalla seconda edizione di “Studenti nel paese dei balocchi”, accresciuta di una lettera ai genitori proprio centrata sulla scuola attuale e sulla riforma in via d’esecuzione, per proseguire con “La scuola del P(l)of”, dizionario satirico dell’istruzione superiore italiana (come da sottotitolo), spesso icastico quasi di un furore fescennino e dedicato sarcasticamente a quei superiori che si prodigano affinché il lavoro dell’insegnante si possa svolgere nelle “peggiori condizioni possibili”. Mazzocchini è anche, oltre ad essere docente di lettere nelle scuole superiori e studioso di filologia classica, uno scrittore non banale, come dimostrato dalla raccolta di racconti uscita per Prospettiva nel 2007, “L’anello che non tiene”.
Sono una persona abbastanza aliena dall’invettiva, e non sarei forse capace, né probabilmente il mio stile vi si adatta, a scrivere un pamphlet piuttosto icastico, anzi due, quindi cerco di capire quale sia il comune denominatore del pensiero di Mazzocchini. Tante cose non le so, per esempio come e quanto si copi all’esame di maturità, tanto meno so se davvero gli insegnanti chiamati ad aggiornarsi non lo facciano, né sono sempre sicuro che il debito non si recuperi (amici insegnanti mi assicurano che ora lo si fa), però il grande male d’Italia, al di là di tutte le sfaccettature, è lo scollamento tra la teoria e la prassi che Mazzocchini evidenzia quasi ad ogni pagina: c’è la scuola teorica come risulta al ministero e c’è quella reale che popola i nostri giorni di alunni, genitori, insegnanti, ecc. La nostra scuola teorica credo sia la migliore del mondo: i POF, alcuni dei quali ho letto e conosco, sono un concentrato di concetti ed intenzioni nobili ed alte. La pratica non è esattamente così: questo accadeva anche quando studiavo io, ma adesso la differenza mi sembra maggiore (forse perché gli obiettivi sono assai più ambiziosi e i mezzi ancora più scarsi).
La scuola teorica, come il gas ideale, l’Araba Fenice, la ferrovia Passo Corese-Rieti, è un’idea bellissima e fascinosa: peccato soltanto che non esista, e nessuno sa se quest’obiettiva situazione cambierà in tempi compatibili con l’esistenza umana (perché, per quanto sempre più tecnologici, non siamo eterni ahinoi). A differenza delle altre chimere citate qui sopra, la scuola teorica ha tuttora dei ferventi apostoli che sono pronti a giurare che ci sia davvero, apostoli che sono collocati in modo equanime a destra e a sinistra e specialmente nei sindacati. E’ la stessa filosofia che fa ritenere che, spariti i bigliettai, tutti pagheremo diligentemente quanto dovuto, e che una stazione senza vigilanza (e senza quindi nessun tipo di sanzione applicata ai contravventori) rimanga intonsa e perfetta, magari pure pulita (nel senso che non si sporchi, non che sia previsto che qualcuno adempia a questo compito, perché bisognerebbe pagarlo, e noi vogliamo risparmiare).
Il POF è, da quel che capisco, lo specchio di questa ferma convinzione (che sarebbe commovente, se non fosse purtroppo indicativa di quel che noi italiani amiamo di più, e che Beppe Severgnini ha giustamente messo come titolo di un suo libro, la “bella figura”).
Tuttavia, è facile, e probabilmente semplicistico, dire che questo scollamento dipende dal nostro carattere nazionale: i caratteri nazionali si modificano, il caffè espresso come lo conosciamo è apparso circa nel 1930, eppure sembra che esista da mille anni, tanto è simbolico di un certo nostro modo di vivere. La verità è che siamo (in apparenza) colti da un’accidia monumentale nel ritenere che deve essere sempre così (per inciso: è inutile essere progressisti se si pensa che tanto non cambierà mai niente, caratteristica che mi sembra un altro dei paradossi italiani): in realtà, no, non è obbligatorio che sia sempre così, è che a molti, troppi, conviene ancora, almeno in apparenza che sia così.