Dopo una lunga e fremente attesa è partita su Apple TV+ la prima stagione di Foundation, la serie “mostre” tratta dall’omonimo ciclo scritto dal grande Isaac Asimov.
Per una curiosa e, non lo nego, piacevole coincidenza di recente mi sono trovato a scrivere del Buon Dottore, in occasione della recensione del romanzo Neanche gli dei, da poco ripubblicato da Mondadori nella gloriosa collana Urania.
Avverto subito che si tratta di un’opera molto particolare nell’ambito della vasta produzione asimoviana. Composto di tre parti “quasi” autonome – pubblicate del resto in tale forma su varie riviste – segnò il ritorno alla fantascienza del grande scrittore dopo anni dedicati perlopiù alla divulgazione.
Vi si parla di una strabiliante e rivoluzionaria fonte d’energia, tema quanto mai attuale anche a distanza di molti anni dalla pubblicazione del libro, avvenuta nel 1972. Ma entra in gioco anche una razza aliena di un altro universo e gli interessi in gioco, qui e là, diverranno confliggenti, con esiti quantomai imprevedibili.
Molto bella e riuscita la prima parte, ambientata nel mondo accademico, che ben conosceva l’autore. In generale la qualità narrativa di un Asimov ormai più che padrone dei propri mezzi è molto alta. Ma c’è di più naturalmente in quello che lo stesso scrittore pare considerasse il suo romanzo più riuscito.
Ian McEwan sostiene – quasi a voler prendere le distanze dal genere, che pure per sua stessa ammissione ha frequentato da lettore negli anni giovanili – che Macchine come me non sia un romanzo di fantascienza. Eppure è un romanzo distopico, ambientato in un’Inghilterra alternativa, in un 1983 dominato da I.A., androidi e Internet (anzi, Internet da decenni prima).
Non solo: l’odiatissima Lady di FerroThatcher ha perso la Guerra della Falkland, il grande Alan Turing è ancora vivo e… ben presente nel romanzo e Adam, l’androide protagonista della storia, fa sfoggio di capacità sorprendenti e per certi versi pericolose, nonostante la formale obbedienza alle ben note Leggi della Robotica di Isaac Asimov.
Ma i disordini sociali infuriano, nonostante il progresso tecnologico e un’apparente maggiore ricchezza.
Ne parlo più diffusamente qui, se vi va di approfondire.
Il Rock, genere musicale quanto mai incline a contaminazioni tra generi, ha spesso subito il fascino dell’ignoto.
Alan Parsons e Eric Woolfson
Un esempio luminoso di questa tendenza è costituito dalla produzione dell’ensemble musicale nota agli appassionati di tutto il mondo con la sigla Alan Parsons Project.
In particolare il compianto Eric Woolfson, che della band fu l’ispirato scrittore dei testi e cantante solista, come ebbe a raccontarmi nel corso di un’intervista rilasciatami qualche anno fa, sentiva molto il fascino dell’ignoto, del cosiddetto “beyond”.
Profondo estimatore della letteratura gotica, non a caso compose assieme ad Alan Parsons, l’altra metà del gruppo, l’album Tales of Mistery and Imagination (1976), ispirato ai racconti del grande Edgar Allan Poe, lavoro successivamente trasposto e rappresentato con grande successo anche in musical.
L’anno seguente è la volta di I Robot, composto sotto l’influenza di uno dei padri della fantascienza moderna, “Il Buon Dottore” Isaac Asimov. Nel 1978 l’attenzione del duo si concentra invece sugli insondabili misteri dell’antico Egitto, con l’album Pyramid, sospeso tra le tipiche sonorità elettroniche di APP e le atmosfere misticheggianti e sfuggenti dell’Egitto delle piramidi millenarie.
Ma la fantascienza di lì a poco tornerà prepotente nell’orizzonte creativo del vulcanico duo: nel 1982 esce Eye in the Sky, album dal quale sarà tratto un singolo di grandissimo successo. Il disco cita apertamente, a partire dal titolo, il Philip K. Dick dell’ultimo periodo, quello più oscuro della Trilogia di Valis. Il tema della “divina invasione” è inserito da Woolfson all’interno di un disco da un lato accattivante e di grande presa, dall’altro denso di significati più profondi per… chi voglia o possa coglierli.
In anni più recenti, quando ormai la collaborazione tra Alan Parsons ed Eric Woolfson si è conclusa, il solo Parsons pubblica l’album A Valid Path, che contiene una vera e propria perla, la lunga suite strumentale intitolata Return to Tunguska.
Il brano, dedicato all’evento che colpì l’ormai celebre cittadina russa, sembra avallare la tesi di chi sostiene che la colossale distruzione avvenuta in zona sia stata causata non dalla caduta di un grosso meteorite, ma dall’atterraggio di un’astronave aliena di ritorno sul nostro pianeta, come allude appunto il titolo del brano suonato da un David Gilmour stellare – è il caso di dire – che omaggia apertamente le atmosfere “cosmiche” e psichedeliche tipiche dei primi Pink Floyd. Quelli di Interstellar Overdrive, per intenderci.
Per quanto concerne il Bel Paese, dal canto loro i musicisti di casa nostra non sono rimasti immuni dal fascino delle civiltà perdute.
È il caso di un esordiente Riccardo Cocciante, che pubblica nel lontano 1972 un bel 33 giri di rock progressive, genere musicale allora in gran voga, intitolato nientemeno che Mu.
i Trip
Non solo: per una curiosa coincidenza, nello stesso anno una delle band più apprezzate di quegli anni, i Trip, pubblica anch’essa un album che trae spunto dalla medesima leggenda.
Il disco è Atlantide, ed è sempre all’insegna del rock progressive. Particolare interessante, la versione originale pubblicata su vinile era caratterizzata da una copertina, realizzata con cura certosina dallo studio Up & Down, raffigurante una immaginaria mappa dell’isola.
Per concludere, la mitica città è citata anche nel brano omonimo Atlantide apparso come lato B del 45 giri Buffalo Bill, pubblicato nel 1976 da un giovane, ma già molto apprezzato, Francesco De Gregori.
N.d.A.: questa recensione è già apparsa in una versione leggermente differente sulla rivista XTimes, edita da Xpublishing.
Quante volte si guarda con apprensione al futuro, perché rappresenta un’incognita, un’incertezza, qualcosa che non sempre siamo pronti ad affrontare? E ci si rifugia, magari a livello inconscio, nella certezza del passato, in quel che la nostra psiche ha già digerito, sebbene per farlo abbia a suo modo elaborato. A suo modo. Una parziale verità di ciò che è stato e che si fa riparo – illusorio – dalle intemperie della vita.
Nel ricordo, a volte, ancora si soffre, ma è una sofferenza nota, che in un certo senso è capace di consolarci, per il solo fatto che è passata.
Verità parziale: non esiste mai una sola versione dei fatti perché difficilmente siamo soli quando accade qualcosa. E, anche se lo fossimo, quella che viviamo, che percepiamo, sarebbe solo la nostra personale realtà, una delle infinite possibili.
Penso al Tesseract (o ipercubo), che ci mostra quanto la tridimensionalità a cui siamo avvezzi possa essere limitata, aprendo strade a mondi al limite dell’umana comprensione.
Penso al detective Del Spooner (Will Smith in Io, Robot), unico essere umano in grado di concepire la colpevolezza in un robot, al punto da scambiare una gentilezza per un borseggio.
Penso agli Scorpioni, criminali di guerra che alcuni “scambiano” per eroi.
Senza andare a cercare lontano, ogni avvenimento, ogni attimo della nostra vita è condizionato dal nostro giudizio, dalla personale visione dei fatti.
Non a caso, quando una notizia passa di bocca in bocca, finisce per deformarsi, arricchendosi di nuovi particolari e spunti a ogni passaggio.